La mia gravidanza è arrivata a sorpresa, frutto di una clamorosa bdc mentre ci preparavamo ad una FIVET in Spagna, ed è stata vissuta nell’ansia e nella nausea per tutto il primo trimestre (ho un’anomalia genetica e ho dovuto fare la villocentesi). Passato quel momento però era stata perfetta, felice e senza fastidi: mi sono portata in giro la mia pancia bellissima come un biglietto vincente del superenalotto, io che avevo tanto temuto che non sarei mai stata incinta. Arriva settembre, e io sto sempre bene, guido, esco, finisco lavori in sospeso. Tutti mi chiedono se non sono stanca e stufa, ma io so che una parte di me rimpiangerà per sempre la pancia e non ho così fretta di liberarmene.
Il pomeriggio del 4 settembre, a 39+3, inizio a perdere il tappo mucoso. Già da qualche giorno ho contrazioni non dolorose, completamente irregolari, che osservo stranita come se tutto stesse accadendo a un’altra; ma con il tappo arriva la consapevolezza: ci siamo, non sarò incinta per sempre, la bambina prima o poi dovrà uscire da lì.
Quella notte non mi corico con mio marito (mi pentirò amaramente del sonno perso!) e sto sveglia fino alle cinque a mettere cose in ordine e lavorare al pc, piena di ansia per quello che resta da fare: preparo i compiti per i miei studenti, riempio la posta di bozze di mail pronte da inviare e alle cinque me ne vado a letto finalmente più tranquilla.
Il giorno dopo trascino mio marito a comprare un peluche per Viola e a fare un sacco di commissioni; la sera invitiamo a cena una coppia di amici e ci sbafiamo carbonara e cassata siciliana. Sul divano ho contrazioni frequentissime, ogni due o tre minuti, ma non fanno male, quindi le ignoro. La notte mi alzo per fare pipì e scopro che ho piccole perdite rosate. Allora sveglio mio marito e ci consultiamo: aspettiamo a casa per vedere che succede o andiamo all’ospedale? Tergiversiamo mezz’ora ma le perditine continuano, io non sono tranquilla e così decidiamo di andare a farmi dare un’occhiata. Partiamo con la valigia in una Torino buia e tranquillissima, siamo allegri e un po’ elettrizzati, ma convinti che sia troppo presto e mi rimanderanno a casa (lui mi dà anche della paranoica).
Arrivati al ps lo lascio in sala d’attesa e, quasi vergognandomi, vado all’accettazione, ma l’ostetrica mi dice che ho fatto benissimo a venire, mi fa un tampone per verificare che non siano le acque ad essere tinte e mi visita: meraviglia, sono già a 2 cm!! Mi dice che mi farà un tracciato, poi mi tratterrà in osservazione per un paio d’ore e poi, se continuo ad essere così tranquilla, mi rimanderà a casa a proseguire il travaglio. Spedisco mio marito a dormire un po’ e faccio il mio tracciato, scoprendo che in realtà ho un sacco di contrazioni non dolorose, molto ravvicinate, mentre la bambina si muove come una pazza. Questo momento di silenzio e attesa, senza nessun dolore, è magico: penso che questo che sta iniziando è il viaggio di Viola, non il mio, io l’ho portata fino a qui nella mia pancia e adesso il mio compito è solo stare tranquilla, perché lei non abbia paura e possa venire al mondo attraverso di me. Poi dormicchio un po’ su una barella e alle sette e mezza la dottoressa che ha appena iniziato il turno guarda il mio tracciato e decide di ricoverarmi.
Io salgo e sono arrabbiatissima, penso che ci vorrà una vita visto che non ho ancora nessun dolore e io volevo fare il più possibile del travaglio a casa. Mio marito arriva con valigia e brioches, io chiacchiero con le mie compagne di stanza, una ricoverata con il bimbo di un mese per una bruttissima mastite, l’altra incinta con una colica renale: mi hanno infilata nel reparto a media complessità perché l’ospedale trabocca di partorienti. Il tempo passa in fretta e inizio ad avere qualche dolore, le contrazioni adesso sono più distanziate e fanno male come un forte ciclo mestruale: del tutto sopportabili. Chiamo mia madre e qualche amica, sfoglio Vanity Fair, mi guardo da fuori e non riesco a credere che stia succedendo e che stia davvero succedendo a me.
A mezzogiorno una dottoressa passa a vedere come va e, appurato che andiamo a rilento, mi dice con aria minacciosa: “venga che gliele faccio partire io le contrazioni regolari”. Vado timorosa in sala visita e quella sadica mi visita, stabilisce che sono arrivata solo a 3 cm e che adesso mi scolla le membrane. Io cerco di convincerla a non farne niente e andare avanti così: 3 cm in 12 ore senza praticamente dolore non è mica male, se mi tengono qui altri tre giorni magari partorisco senza dare fastidio a nessuno…non voglio la manovra, mi terrorizza, ma lei è inflessibile e procede (in effetti fa un po’ male, ma alla fine non male come temevo).
Torno in stanza e scopro: 1) che mi hanno portato il pranzo 2) che il pranzo fa veramente schifo 3) che adesso le contrazioni le ho ogni tre minuti e sì che iniziano a far male sul serio!
Richiamo all’ordine mio marito che avevo spedito a mangiare e nelle brevi pause tra una contrazione e l’altra trangugio quell’orrenda pasta scotta (che più tardi farà una brutta fine)
È mezzogiorno e mezzo, è domenica e fuori c’è il sole, e noi incominciamo a camminare su e giù nel corridoio tra gli sguardi di simpatia dei visitatori e delle ragazze che hanno già partorito. Mio marito mi tiene il tempo, mi dice quanto manca alla contrazione successiva e alla fine di quella in corso. Nel corridoio ci sono, distanziati, tre termosifoni alti con il copritermosifone in marmo e noi camminiamo da uno all’altro, io mi ci attacco durante la contrazione mentre mio marito mi massaggia la schiena. Fa male, fa più male di qualunque altra cosa abbia mai provato in vita mia (del resto è la prima volta che mi ricoverano in ospedale e non mi sono mai nemmeno rotta un braccio), ma non è insopportabile, perchè quando arriva al massimo, quando sento che di più non ce la farò, il dolore inizia a diminuire e mi dà qualche minuto di tregua. Nei momenti peggiori mi sforzo di respirare e mi immagino Viola che striscia nel buio dentro di me, spinta un po’ più avanti da ogni contrazione.
Dopo tre ore di passeggiate tra i termosifoni e di pensieri zen, però, comincio ad averne abbastanza. Le contrazioni secondo me sono proprio forti ma rimangono irregolari, con intervalli variabili tra i due e i sei minuti, e io inizio a pensare che se dobbiamo andare avanti così ancora a lungo la mia capacità di sopportazione finirà e darò di matto: voglio la peridurale. Mi affaccio alla sala visita per dirlo all’ostetrica e lei mi spiega con condiscendenza che per l’anestesia bisogna che le contrazioni siano molto più forti e regolari, insomma, dobbiamo aspettare che inizi il travaglio vero.
Come, il travaglio vero?

Cioè, allora questa roba che mi fa così male cos’è? Mi prende il panico e imploro che mi facciano almeno un tracciato e mi dicano a che punto sto. Esegue sospirando, mi attacca, torna dopo venti minuti, guarda il foglio e dice “ah, però! Sono belle forti!” Poi mi visita e dice di nuovo “ah, però”.
Sono dilatata di nove cm.
Hai visto, antipatica, che dopotutto quello era un travaglio vero?
A questo punto naturalmente niente perdurale e si va in sala parto. L’ostetrica mi dice che sono proprio brava e mi propone di scendere a piedi per completare la dilatazione e ci avviamo: io mi attacco alla barella durante le contrazioni, così ci mettiamo un po’. Arrivati sotto mi visita di nuovo e appena mi sfiora rompo le acque sul lettino: dieci centimetri, è fatta, posso cominciare a spingere.
Però c’è un problema: io non ho nessuna voglia di spingere e le contrazioni non sono più così nette come prima: mi sento stanca da morire, voglio sdraiarmi, aspettare un momento. Segue un’ora e mezza di manfrina in cui io non riesco in nessun modo a capire come devo spingere, non percepisco più l’inizio delle contrazioni tanto che devo farmi dire dall’ostetrica quando ne ho una, mi viene la nausea e vomito l’orrenda pasta scotta, urlo che non ce la farò mai mentre l’ostetrica e mio marito mi sorreggono, mi tengono le gambe e mi ripetono che devo decidermi per forza a farla nascere perché il tempo passa, le acque sono rotte e la bambina non può aspettare tanto più a lungo. Quando inizio seriamente a pensare che resteremo qui fino a Capodanno, io a gambe larghe che mi lagno e questi due che mi sgridano e mi urlano di spingere, si affaccia una ginecologa che decide di farmi una flebo di ossitocina.
Ci vogliono dieci minuti e tre buchi per trovare la vena perché non riesco a star ferma durante le contrazioni, ma appena il magico liquido entra in circolo succede il miracolo: sento di nuovo le contrazioni e finalmente capisco come si fa a spingere! Capisco anche che per partorire devi rinunciare ad ogni controllo sul tuo corpo, controllo che io cercavo in qualche modo di mantenere, devi dimenticare la paura e la vergogna, abbandonarti e lasciar fare a lui. In qualche modo ci riesco, ad ogni contrazione dò tre spinte e vediamo la pancia che scende a vista d’occhio verso il basso, io urlo ancora ma non più per dire che non ce la faccio, solo per darmi l’energia e il ritmo, e in nemmeno venti minuti ecco la testa che si affaccia e si vedono i capelli: mio marito conferma e io sono allibita, pensavo che sarebbe svenuto e/o scappato a gambe levate, invece è calmissimo, partecipa, aiuta e non si perde niente.
Adesso ci siamo davvero e ci spostiamo nella sala parto vera e propria, la stanza si riempie di gente e mi trasferiscono sul lettino ginecologico. Alla prima contrazione piazzo le mie tre spinte ed esce la testa, e rimaniamo lì alcuni secondi, sospesi in attesa della prossima! Sento la voce di mio marito: “Bà, si vede la testa, è la cosa più bella che io abbia mai visto”…io realizzo con orrore che si è messo davanti e non dietro al lettino come ci avevano raccomandato al corso preparto e mi dico che adesso rimarrà traumatizzato e non faremo sesso mai più…ma poi penso allo sfacelo che sta capitando là sotto e mi dico che tanto comunque non faremo sesso mai più…e mentre sto facendo questi pensieri deliranti arriva la contrazione successiva e l’ostetrica mi dice “forza, adesso deve uscire PER FORZA” e io spingo, spingo, spingo e mia figlia scivola fuori da me.
Appena due secondi, lo spazio di un respiro e il suo pianto fortissimo, ci sono un sacco di voci e di mani, mi fanno alzare la camicia e me la mettono sulla pancia ancora tutta umida, così calda e tremante e palpitante di vita. Io rido e piango e incrocio lo sguardo di mio marito e in silenzio ci diciamo che ce l’abbiamo fatta, che entrambi siamo appena usciti da quel tunnel di paura e di angoscia in cui avevamo camminato nella lunga attesa di nostra figlia, attanagliati dal dubbio che non sarebbe arrivata mai: questa cosa così semplice e naturale che succede ogni minuto, in ogni parte del mondo, per noi due è un piccolo miracolo.
Viola è nata così, a 39+5, alle 18,40 di domenica 6 settembre 2009, pesava 3,480 Kg per 50 cm, ha preso 9 punti all’apgar (e io un numero imprecisato alla patata, ma questa è un’altra storia..) e non me la dimenticherò mai così minuscola tra le braccia del suo papà che in confronto a lei sembrava enorme, con il camice verde e gli occhi lucidi.
Grazie, bambina mia, per averci regalato una domenica così...e per essere stata il nostro mare dietro alla curva
